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Fotografo prima di tutto per passione. Così come andare in moto, mi sono appassionato alla fotografia in modo del tutto naturale e senza alcuna spinta esterna. È stato un caso, una combinazione di situazioni e persone, che mi hanno fatto scoprire questa disciplina, se così si può chiamare.

La mancanza di influenze pregresse è stata sicuramente un bene, perché mi ha consentito un avvicinamento graduale, istintivo e senza preconcetti a parte la mia visione personale. Di contro, ha richiesto molto tempo per farmi arrivare a definire un vero e proprio stile.

In realtà questo è un campo dove non ci si può mai ritenere “arrivati”, anzi dove ogni occasione è buona per sperimentare nuove soluzioni e dove – ad un certo punto della carriera – si può decidere di cambiare completamente stile e ricominciare da capo. A questo si aggiunge una continua evoluzione tecnica e tecnologica, che apre a sfide completamente nuove: si pensi solo alla fotografia aerea con i droni, impensabile anche solo quattro o cinque anni fa.

Bazzico questo ambiente dal 2010, anche se ho iniziato a maneggiare corpi macchina degni di questo nome solo nel 2015. Ma da allora ho imparato a lavorare con Canon, Nikon, Pentax e ormai vivo a tempo pieno nell’ecosistema mirrorless di Sony. So di non essere il nuovo Ansel Adams, ma diciamo che ne capisco ormai abbastanza per farci qualche riflessione.

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La tecnica non è tutto

La fotografia, così come la maggior parte delle arti visive – dalla pittura al videomaking – si fonda su due aspetti portanti: la tecnica e la narrazione. Un lavoro può essere perfetto tecnicamente, senza trasmettere nulla, oppure essere molto evocativo ma tremendamente realizzato. La vera arte, a parer mio, nasce quando questi due ambiti si incontrano. Quando il fotografo riesce a raccontare l’attimo con un mix di tecnica, sensibilità e – appunto – interpretazione narrativa.

Nell’epoca dei social network onnipresenti, dello smartphone come bene di comunicazione primario e della informazione a tutti i costi, la volontà di narrazione ha completamente subissato la componente artistica.

Oggi l’importante è produrre contenuti, farlo possibilmente in fretta, in grandi volumi e spendendo poco.

Sia chiaro che esistono una serie di contesti dove ancora la qualità e la tecnica fotografia regnano sovrane, si pensi al mondo della moda, della pubblicità o dell’editoria. In realtà, in quest’ultimo settore sono già evidenti da tempo alcune grosse crepe, dovute in particolare alla bulimia di informazioni generata dalla diffusione delle notizie su Internet. La diffusione a latenza zero richiede materiale a latenza altrettanto bassa.

Non c’è quindi più tempo per curare la qualità, a malapena viene curata quella dei testi, figurarsi le immagini. Tutto questo ha portato – e sta portando – inevitabilmente ad un abbassamento generale della qualità del prodotto fotografico, con una conseguente lenta ed inesorabile diminuzione della capacità di apprezzamento del pubblico.

Il potere al popolo

Indubbiamente il successo di una determinata opera è composto in larga parte, dall’apprezzamento suscitato nel pubblico a cui viene sottoposto. Nel corso della Storia è sempre stato così, ma forse questa fiducia nel pubblico andrebbe, oggi, ridimensionata. Internet ed i social network hanno permesso la diffusione massiccia, continua e inarrestabile di tonnellate di contenuti scadenti.

Instagram è l’esempio supremo per quel che riguarda l’imaging. Abbiamo sdoganato contenuti composti da foto mosse, modificate all’inverosimile e palesemente false, fino a quell’abominio dei video in verticale. Rigorosamente mossi e sfuocati pure loro.

Luino small

Oggi il pubblico chiede quello. Gli utenti vogliono contenuti a tutti i costi, possibilmente privati e magari un po’ stuzzicanti. Questo voyeurismo digitale trova la sua massima espressione in soluzioni quali le storie Instagram, i video su TikTok o gli stati di WhatsApp. Tutti scenari dove conta SOLO la potenza “social” del contenuto/messaggio, ma dove si è persa completamente di vista la qualità dello stesso.

In quanto utilizzatore di social network da ben prima dell’avvento della Triade Facebook-Instagram-Twitter, ho visto passare milioni di foto, post, video e contenuti di ogni tipo dalle mie bacheche. Utilizzo i social media per seguire alcuni grandi artisti che hanno fatto o stanno facendo la storia della fotografia: a partire dalla agenzia Magnum, passando per fotografi del calibro di McCurry, David Duchemin e numerosi altri professionisti meno blasonati, ma altrettanto bravi.

Riscontro costantemente con grande disappunto che il livello di engagement delle loro immagini è sempre significativamente più basso, rispetto a contenuti pessimi e pubblicati da utenti – magari virali – ma totalmente insulsi.

Allo stesso modo, sui social, vedo troppo spesso decine di commenti entusiasti sotto a fotografie che spesso non meriterebbero nemmeno di essere scaricate dalla scheda di memoria. Anzi, che nemmeno era il caso di scattare. Non parliamo poi di tutte quelle pagine che nascono per valorizzare determinate aree geografiche, ma che finiscono per pubblicare solo quello che vogliono loro, anteponendo la raccomandazione dell’utente di turno all’effettiva qualità del lavoro presentato.

Sorge quindi una importante riflessione.

Nel momento in cui il pubblico non è più in grado di giudicare il contenuto che gli viene sottoposto, ha ancora senso misurare il successo dell’opera in base al riscontro ottenuto?

Io, dal basso della mia esperienza poco più che hobbystica e limitando la trattazione al mondo della fotografia, inizio seriamente a pensare che la risposta sia semplicemente no.

Che si debba tornare ad una èlite?

La fotografia e le arti visive in generale, sono sempre state ad appannaggio di una schiera piuttosto limitata di produttori. Le difficoltà tecniche unite ai costi delle attrezzature hanno sempre creato una naturale barriera all’ingresso, che oggi sta crollando sotto il peso dell’elettronica di consumo.

Il mezzo di produzione dei contenuti è diventato lo smartphone, macchine fotografiche, macchine da presa e attrezzature specifiche sono state spazzate via da questo dispositivo. Ho visto di persona creare contenuti editoriali e di moda utilizzando degli smartphone e nemmeno di fascia troppo alta.

Sia chiaro, non stiamo parlando di genialità dell’artista nello sfruttare uno strumento nuovo per creare contenuto, ma proprio di incompetenza pura e semplice.

Lavorando molto nel mondo di Instagram, ho potuto sperimentare di persona questa situazione. In alcuni casi ho la possibilità di produrre contenuti per conto terzi, utenti che hanno un vasto bacino di follower, abituati a un certo livello di immagine. Bene, quando questi soggetti pubblicano scatti realizzati con la mia attrezzatura e conseguente lavoro di postproduzione, l’engagement aumenta. Salvo poi dimenticarsi della differenza, appena viene postata una foto successiva fatta col telefono.

Il susseguirsi di questi casi mi ha fatto riflettere sul fatto che, da un lato c’è ancora chi sa apprezzare la differenza, mentre dall’altro l’assuefazione per contenuti mediocri finisce sempre per prendere il sopravvento. Quantità contro qualità, l’eterna sfida.

Qui nasce la seconda riflessione con cui vorrei chiudere questo lungo articolo

Per quanto sia consapevole che sia praticamente impossibile, forse avrebbe senso un ritorno ad una produzione di imaging d’èlite?

BedoLabs.it di Ing. Lorenzo Bedin - Consulenza IT